Friday, November 26, 2010

Martyrs: intervista al regista Pascal Laugier

Reperita in Rete grazie alla segnalazione dell'amico Gabriele.

La storia di Martyrs da dove nasce?

L'immagine di partenza, era questa "figura della vendetta", l'intrusione improvvisa di questa ragazza che, arma alla mano, viene a sconvolgere la vita di una famiglia come tutte le altre. Partendo da questa semplice idea, mi sono posto le domande di base "Perché lo fa?", "Che cosa è successo?", "Si sbaglia?", e la storia si è scritta quasi da sola. In fondo, scrivendola, io non ne sapevo molto più dello spettatore che guarda il film e capisce poco a poco il livello del mistero. È stato un processo molto intuitivo.

Perché fare un film tanto violento? Vuole turbare il pubblico? Esorcizzare la paura della morte e del dolore?

Innanzi tutto, mi sembrava il mezzo più onesto e più integro di raccontare questa storia. Martyrs parla di persone che si fanno male. Chi ha sofferto si vendica e a sua volta fa soffrire gli altri. I supposti boia diventano vittime e al contrario non si sa più dove comincia il male, non si sa più chi è il "martire". Mi piaceva l'idea di fare un film inquietante, di fronte al quale lo spettatore perde i propri riferimenti morali e non sa più chi sostenere e con chi identificarsi. Non mi interessa turbare, ma occorreva veramente che ci fosse una sensazione fisica, organica, del dolore inflitto, altrimenti si sarebbe persa ogni idea della gravità di questa violenza; ciò l'avrebbe resa "gadget" e avrebbe reso il film un oggetto abbastanza ambiguo. Io non volevo allontanarmi dai miei personaggi. Volevo che ogni colpo fosse veramente doloroso, non per qualche discorso morale sulla rappresentazione di questa violenza, ma perché è l'argomento stesso del film: in fondo alla violenza c'è qualche cosa? C'è un senso nel trascorrere il nostro tempo a soffrire e a fare soffrire l'altro? Che cosa bisogna farne di questo dolore universale che sembra mosso da un principio di movimento continuo che si genera da solo, c'è un fine per tutto questo? Credo che in fondo è la domanda che si pongono tutti i film horror che ho apprezzato: il motivo per cui la condizione umana è fondamentalmente tanto atroce. Il trucco dell'horror, in quanto genere, è di prendere la morte come punto di partenza e non come punto di arrivo, diversamente dalla tragedia, per esempio. Essere è deteriorarsi, la finitudine è là, al principio, bisogna comunque conviverci. Sono forse delle cose trite, dei cliché, ma non smettono di farmi interrogare, di commuovermi e di generare altri progetti. E poi, la nefandezza del film viene dall'umore che avevo quando l'ho fatto. Le circostanze della mia vita erano tali che mi sentivo abbastanza solo. Sentivo un sentimento diffuso che mi faceva alquanto soffrire, che la nostra epoca era una tra le più brutali mai vissute. Ma si trattava di una brutalità molto particolare perché al tempo stesso è nascosta, civilizzata e contenuta nel sistema stesso che ci fa vivere insieme; è tenuta nascosta da ciò che solitamente si chiama la "nostra civiltà", ma è là, onnipresente, e mi colpisce nel profondo. La violenza sorda, quasi invisibile delle nostre società urbane occidentali, mi sembra molto dura da sopportare. La competizione è rude, i perdenti sono legionari e l'angoscia individuale è al suo parossismo. Quanto tempo può durare? Che cosa faremo dei perdenti? Ci sono cineasti che devono sobbarcarsi queste domande, mi sembra. Abbiamo bisogno di film che rimandino questo orrore contemporaneo, che ne facciano la materia che amoreggia con la tentazione del nulla, che si assumano l'onere di essere portatori di cattive notizie. È un progetto che non mi sembra né privo di nobiltà, né privo di necessità. Se tutti i film, in nome del pragmatismo economico, non si occupano di altro che di vivere d'aria, rimandando alla società un'immagine liscia e convenuta di lei stessa, mi sembra che questa sia un'idea di cinema che sbaraglia il campo, un'idea di cinema che mi è molto cara. Un produttore non può passare la vita ad accarezzare il pubblico nel verso del pelo, non può esserci solo questo, se no, è da spararsi. Provo a farlo, al mio livello, nel quadro di un film di genere con suspense, perché è il mio genere, perché così si apre il progetto, anche all'estero, ma avrei potuto farlo benissimo con un film sperimentale girato in DV senza sceneggiatura. Sarebbe stato altrettanto scuro, altrettanto triste, altrettanto mortifero.

Si spinge molto nella nefandezza...

Non è colpa mia se questa non è un'epoca da mettersi con il culo per terra! E poi, il genere lo permette. Posso essere più barocco, più espressivo che, diciamo, nel quadro di una cronaca di realismo sociale, per esempio. Trovo ottimo che un film di paura, un film horror o fantastico, lo chiami come vuole, ritrovi un carattere offensivo, che mi permette di esprimere sommessamente delle cose molto personali, protetto come sono dai codici e dagli archetipi di cui parlavo precedentemente.

Molte attrici hanno rifiutato di lavorare in questo film, perché?

Perché è violento, perché è assimilato a un genere dubbio, perché il progetto non è sentito come "ricompensa". È difficile combattere i pregiudizi. Ho avuto spesso l'impressione di proporre un film pornografico. Francamente l'ambiente del cinema è estremamente conservatore, molto conformistico. Il carrierismo prudente è una regola largamente seguita, come in qualsiasi altra impresa, e sembra assolutamente normale, mentre in fondo, nell'arte, è una cosa orribile!

Il film è molto veloce, gli sviluppi sono costanti...

La suspense è la costante del film. Martyrs è un film totalmente narrativo. Si rimane con il dubbio, ci si interroga fino alla fine. Spero che gli spettatori ci mettano letteralmente un'ora e mezza a scoprire tutto.

Quale sarebbero, per lei, le reazioni ideali del pubblico di Martyrs?

Amerei che si commuovesse. Non sono pazzo, so bene che alcuni non potranno andare oltre un certo livello di violenza, so bene che negheranno di andare là dove il film cerca di portarli. Sono così, non posso farci niente, fa parte del progetto. Capisco molto bene che lo si possa trovare insopportabile. Naturalmente mi aspetto delle reazioni estreme, talvolta tanto violente verso di me almeno quanto lo è il film verso il pubblico. Forse è vero che è un film malato. Una malattia giunta al suo stadio terminale. Una parte del pubblico me ne vorrà forse. Trovo questa prospettiva molto interessante.