Saturday, April 18, 2009

Carboniferous (4/4)

di Giancarlo Maero
(apparso in origine su www.kronic.it il 11/02/2009)

Ascesa alla sommità del monte.

Definire gli Zu. Risalire all'ultimo disco non collaborativo richiede di andare fino a The Way Of The Animal Powers – un full length breve, un EP lungo? – del 2005 o fino a Igneo (2002). Per poi affondare in una marea di intrecci che hanno una vita spesso quasi autonoma quali facce di un solido. E se definizione è tracciamento di confini, è dunque per inclusione ed esclusione di superfici e volumi in continua modifica, al ritmo dello scavare, come è scavata la montagna di Carboniferous.

Una miniera in cui gli Zu, che finora parevano di volta in volta esplorare appunto lati e facce aperte e nascoste, ritrovano tutte le proprie essenze fuse nel carbone e ne ricavano il lapis definitivo. Gli agganci all'improv, al free, in cui la band cominciava a sentirsi a disagio – dell'impostazione jazz gli Zu hanno poi principalmente caratteristiche ideali e migliori, come la loro urgenza di ricerca, una fame saziata grazie all'apertura a collaborazioni e una prolificità discografica e concertistica frutto di un'etica del lavoro indefessa – non possono a questo punto sviare dall'evidenza di una composizione minuziosa, calibrata dal vivo e incisa in forma lapidea con un risultato politissimo e abbacinante.

Possibile che qualcuno lamenti un minor senso di spontaneità? A ben vedere, il monte Zu è rimasto lo stesso, se Igneo esplodeva già metriche matematiche e virulenze noise e The Way… o l'esoterismo di Identification With The Enemy (con Nobukazu Takemura) avevano indagato un underworld elettronico mefistofelico. Quel che Carboniferous aggiunge è una pienezza creativa, una perfetta e potenziata coscienza, e una produzione eccezionale (strepitoso il connubio con Giulio Favero), in cui l'integrazione tra il crudo trio sax-basso-batteria e i trattamenti elettronici, i contributi chitarristici e vocali, la costruzione atmosferica, enfatizza e drammatizza il composto organico, riunendo le passate esperienze. Quello che finora era frammentazione, frattura scomposta, psicosi free, ora è un magma stratificato, le cui instabilità e turbolenze non sono meno aspre, ma incanalate in un fluido ad alta densità. Un groove pesante, melvinsiano e addirittura meshugghiano – Carbon o l'attacco di Beata Viscera – che non teme di palesarsi metallico (alla maniera di uno Zorn di Heliogabalus) come mai prima. Sentire Chtonian, con la chitarra di Buzz Osbourne e la sua dissonante apertura, un riff sludge che pesca nell'oscurità, il puzzle math, i sintetizzatori sinistri.

Non è una rinuncia alla varietà o alla peculiarità: la compattezza sonora – che non significa ammanco di finezza ritmica o accantonamento del sax, semmai più integrato nella pasta sonora – esalta i contributi eretici. L'opener Ostia con una cassa in 4/4 e il flavour da hardcore elettronico dei Genghis Tron si sfoga in una marcia riempita di strida e armonici; Obsidian sfocia in armonie e progressioni post-hardcore; la presenza vocale di Patton su Soulympics e Orc diviene naturale maturazione di ciò che la collaborazione ha seminato dal vivo e dona la tipica epicità, l'enfasi alessandrina marchio di fabbrica dell'Americano, senza sovrastare l'identità del trio.

Con Carboniferous gli Zu danno una risposta perentoria a domande e dubbi, sedendo in cima a un monte che hanno inciso a loro immagine e somiglianza.