di Danielone
(apparso in origine su anniquaranta.blogspot.com il 24/05/2008)
Avrei compiuto tredici anni la settimana dopo, quando assistetti alla mia prima partita a San Siro, nientemeno che un derby.
Grazie alla complicità di mio padre, che rabbonì mia madre, fui aggregato ad un suo collega di banca che si assunse l'incarico di farmi da balia e protettore, una specie di Caronte nel mare dei dannati, come si raffigurava mia madre il mondo dei tifosi.
Lo stadio di San Siro era ancora fermo al primo anello. Le partite si vedevano rigorosamente in piedi, così da fare stare sugli spalti 40.000 spettatori. Ai derby si andava almeno quattro ore prima, ma per essere sicuri di non finire in alto, in un angolo, quel giorno entrai con la mia guida alle 10. Inizio ore 15.
Da allora mi è rimasta addosso l'ansia di arrivare allo stadio con largo anticipo.
Nell'era dei posti prenotati mi basta un'ora.
Si giungeva a San Siro da casa mia con il 38, tram che attraversava tutta la città, dall'Ortica a Piazza Axum, in un'ora circa. Si viaggiava stipati, fra urla e briciole di panini sgranocchiati dai più affamati. Le ultime case popolari finivano a Piazza Segesta. Poi erano prati sino al Trotter, con fitti greggi di pecore che pascolavano in attesa della transumanza estiva.
Con l'avvicinarsi allo stadio aumentava l'eccitazione che diveniva, al capolinea, corsa sfrenata di tutti gli occupanti verso le entrate.
Non ricordo come si trascorrevano le ore di attesa. Di quel mio primo derby, ho fissa nella memoria una accesa rissa nel mio settore con i tifosi dell'Inter, che quell'anno comandavano la classifica ed avrebbero alla fine vinto lo scudetto, e l'odore acuto dei salami, degli agrumi e del vino contenuti in sportoni che con l'avvicinarsi della partita si svuotavano malinconicamente.
Con i rituali di sempre, cinque minuti prima dell'inizio, entrarono le squadre.
Fu un'emozione violenta, un tremore di attesa e di paura che non mi ha mai più abbandonato nei derby, un soffio di amore passionale quando vidi le mie maglie confuse fra quelle degli altri.
A tredici anni capii che quella partita non si deve mai perderla e che se la vinci hai per quattro mesi il primato cittadino. Vuole dire sfottere gli avversari a scuola o al lavoro per settimane, vuole dire svegliarsi il lunedì felice o angosciato, vuole dire odiare con tutto il tuo essere tutto il mondo degli altri, le loro maglie, i loro giocatori, i loro tifosi, il loro allenatore e i loro dirigenti.
Di quell'Inter-Milan, finito 0 a 0, ho ricordi ovviamente evanescenti, ma vivissimo un tiro del pompierone Nordhal che nel secondo tempo sfiorò il palo.
Quante volte nei giorni successivi mi immaginai quel pallone bucare l'angolo della porta della nord e regalare una vittoria clamorosa ai miei colori che erano rigorosamente rossoneri, a strisce verticali con i calzoncini bianchi.
A fine partita, svuotato di emozioni, fui rimesso sulla tradotta verso casa, ora silenziosa come se il pareggio avesse tolto a tutti i contendenti l'ultimo briciolo di energia da spendere in canti ed urla.
Quando arrivai a casa fui accolto come un reduce redivivo, cacciato in un bagno bollente, forse per purificarmi, e spedito a letto dopo una frugale cena.
Era questa la rivincita di mia madre, che per tutta la vita continuò ad essere convinta che una volta o l'altra in quello stadio mi sarebbe capitato qualcosa di brutto.