Molti anni fa, al confine tra la provincia di Milano e quella di Pavia, mi divertivo con i miei coetanei a gareggiare in bicicletta. Non facevamo corse di velocità, cercavamo invece di percorrere più metri possibili su una ruota sola. Avevamo tutti tra gli 8 e gli 11 anni, ragazzini, spensierati e armati solo delle nostre Grazielle da donna modificate.
Stare su una sola ruota all'inizio credi sia solo una questione di equilibrio. Ci vogliono settimane per acquisire un buon equilibrio e quando diventi bravo ti accorgi che riesci a stare sulla ruota posteriore al massimo per una decina di metri. Ma osservavamo i ragazzi più grandi che invece su una ruota di metri ne facevano centinaia, e qualcosa non ci tornava. Uno dei primi approcci con le leggi della Fisica ci generava sensazioni spiacevoli e profondamente frustranti: per restare in equilibrio era necessario aumentare continuamente la velocità, ma oltre un certo valore l'instabilità era tale da farci ritornare in posizione normale, quando addirittura non si finiva per cadere all'indietro.
Poi siamo entrati in una fase nuova e abbiamo scoperto l'importanza del freno. L'uso sapiente e calibrato del freno era la rivoluzione che ci permetteva di ridurre la velocità in prossimità di valori troppo elevati mantenendo così l'equilibrio e prolungandolo di dozzine di volte. Fantastico. È stato bello e le sfide tra noi sono andate avanti per altre settimane e mesi.
Poi siamo entrati in una terza fase, direi di maggior maturità, e la bicicletta abbiamo cominciato a gustarcela stando su due ruote.
Con le dovute proporzioni penso all'Economia di oggi, fondata sul concetto di crescita continua, e mi vengono in mente quelle brutte sensazioni di quando, in bici su una ruota, la velocità continuava ad aumentare e noi, ancora ignari del freno, sapevamo e sentivamo che presto l'equilibrio sarebbe venuto meno e noi saremmo ricaduti a terra.