Come ossevatore esterno mi rendo conto che in questo Paese non è possibile esprimere le proprie opinioni liberamente, quello che realmente si pensa è diventato un tabù. Si può solo dire quello che non risulta troppo sgradito a chi detiene il potere o che non offende le onnipresenti gerarchie ecclesiastiche; formalmente va bene tutto, formalmente tutto è possibile, purché non ci si allontani troppo dal grande dogma del buonismo.
Questo non vale tanto per me e per voi, in fondo davvero liberi di dire quel che ci pare, ma in contesti estremamente limitati, quasi da bar, anzi proprio per questo siamo liberi, perché ininfluenti; vale soprattutto per chi ha un'esposizione pubblica: politici, scrittori, giornalisti, cosiddetti intellettuali.
Come ho detto, formalmente, è possibile dire quel che si vuole, ma, fateci caso, ogni posizione sgradita al sistema viene subito etichettata come estrema, estremista, radicale.
Ciò avviene sia in modo diretto (apostrofando appunto qualcuno come estremista, radicale, fascista, sfascista, massimalista, no-global, qualunquista, leghista, ecc.) che in modo indiretto, ovvero in maniera più sottile e ancor più subdola.
Un esempio di questo secondo tipo è il concetto di provocazione; dici qualcosa che non va bene a qualcuno e immediatamente ti dicono che hai fatto una provocazione; un pensiero per qualcuno ardito diventa una provocazione; qualcuno interpreta per te la tua sacrosanta idea e te la classifica come provocatoria; in pratica ti danno dell'incapace di intendere e di volere, ti ridicolizzano, ti banalizzano, storpiano il senso e le intenzioni del tuo pensiero, lo giudicano per te, gratis e subito, e creano un meccanismo psicologico, fine ed efficacie, che ti isola agli occhi di chi guarda o legge.
Si va avanti così dai tempi di Galileo, ma non preoccupatevi, tra quattrocento anni qualcuno vi chiederà scusa.