Thursday, June 25, 2009

Black Clouds And Silver Linings (2/2)

È bene sgombrare immediatamente il campo da possibili equivoci: per i Dream Theater vale quanto avevo già scritto qualche tempo fa a proposito dell'ultimo album dei Depeche Mode, ovvero i cinque Statunitensi fanno parte di quel ristretto nugulo di artisti che un disco brutto proprio non riescono a produrlo. Per il sottoscritto si ritrovano in compagnia di gente come Aerosmith, Iron Maiden, Porcupine Tree, Opeth o The Gathering e, tanto per capirci, non si sono mai imbattuti in un vero e proprio passo falso (come per esempio è accaduto ai Metallica nel 2003 con il deludentissimo St. Anger).
Un album non all'altezza, nel caso dei Dream Theater, è semplicemente un album al di sotto di aspettative che, visto il loro imponente passato, sono sempre poste a livelli estremamente elevati. Possiamo parlare di ispirazione più o meno assente, ma siamo comunque di fronte a lavori irraggiungibili per almeno l'80% dei gruppi rock che si sono avvicendati sulle scene mondiali negli ultimi cinque decenni.

Black Clouds And Silver Linings mi è piaciuto a sufficienza, e a sufficienza significa che ho intenzione di comprarlo.

Occorre prima di tutto essere chiari e onesti con sé stessi, ed evitare di illudersi che si possa tornare ai fasti di Images And Words o Awake: quel tempo, probabilmente, è passato per sempre. Ma il nuovo Black Clouds And Silver Linings è un lavoro che cresce col passare degli ascolti, fatto indubbiamente positivo e in controtendenza con le ultime produzioni da studio.

Innanzitutto si presenta con un numero ridotto di pezzi; ne elenco di seguito i titoli e le durate (e intanto colgo l'occasione per ringraziare il collega Vittorio che mi ha fornito l'album in formato MP3).

01. A Nightmare To Remember (14.46)
02. A Rite Of Passage (8.36)
03. Wither (5.25)
04. The Shattered Fortress (12.49)
05. The Best Of Times (13.09)
06. The Count Of Tuscany (19.16)

Pezzi in generale lunghi e molto articolati, un tipo di situazione per cui non vado esattamente pazzo.

Una delle prime cose a colpire è l'utilizzo qua e là di parti vocali non pulite, talvolta al limite del growl, un ambito in cui il gruppo produce prestazioni alquanto scialbe. Colpisce anche la presenza di toni particolarmente cupi che accentuano il contrasto con le sezioni più melodiche. Nella parte finale del primo brano emergono richiami collocabili a metà strada tra Metallica e Testament, anche in questo caso con risultati non eclatanti, mentre il secondo pezzo, a partire dal quinto minuto, vira verso un riffing tipicamente in stile Anthrax, che a mio avviso è da giudicare come una delle cose più inattese e più riuscite dell'intero lavoro. Potrà sembrare una notazione eccessivamente pedante, ma in A Rite Of Passage la pronuncia American English che LaBrie dà del termine "passage" (vocalizzato come se fosse composto dalle due parti separate "pass" e "age") suona davvero fastidiosa. Nessuna nota di rilievo relativa alla ballad Wither, mentre sono di buona fattura sia il quarto che il sesto brano, quest'ultimo caratterizzato da un titolo molto curioso. The Best Of Times mostra invece un andamento banale per buona parte del suo sviluppo e viene salvata solo dal magistrale lavoro di Petrucci negli ultimi tre minuti di esecuzione. Proprio Petrucci, questa volta, mi è sembrato il componente di gran lunga più in forma dell'intero quintetto.

In sintesi nessun pezzo sembra compiutamente riuscito in tutta la sua interezza, ma allo stesso tempo si nota un'alternanza tra parti appena discrete e momenti davvero notevoli; in particolar modo si assiste con piacere a un ritrovato gusto per la melodia, che invece era risultata la grande assente degli ultimi lavori. Il disco va dunque valutato tenendo conto di questi forti contrasti che nel complesso danno luogo a un insieme più che dignitoso, anche se poco livellato.
Da un punto di vista prettamente emotivo (che è poi la vera cosa che conta in un giudizio personale) posso dire che questo lavoro, finalmente, mi ha fatto tornare la voglia di ascoltare di nuovo la musica dei Newyorkesi, cosa che non accadeva da almeno quattro/cinque anni.

L'ammissione di un prolungato periodo di difficoltà (evidentemente non solo artistica) dal quale risorgere appigliandosi alla speranza è cosa a cui il gruppo fa un riferimento piuttosto esplicito nel titolo stesso di quest'ultimo lavoro; il richiamo a un bel proverbio inglese è cosa di cui potrei parlare presto in uno dei prossimi post.