"Il senso di Smilla per la neve" è un libro che mi è piaciuto molto (la sua riduzione cinematografica meno). Pubblicato nel 1992 dallo scrittore danese Peter Høeg, è incentrato sulla figura della glaciologa groenlandese Smilla Jaspersen.
Dei molti passaggi interessanti del testo ce n'è uno che, in particolare, mi aveva colpito molto: Smilla parla dell'eventualità che un Groenlandese venga rinchiuso in carcere e di come questo rappresenti un dramma difficilmente immaginabile per il resto degli Europei: un abitante della Groenlandia, infatti, è talmente abituato agli spazi aperti che l'essere isolato nel chiuso di una cella lo condurrebbe alla pazzia.
Ieri i mezzi di informazione ci hanno fatto sapere che tal Salvatore Ferranti, per via dei suoi 210 chili, è stato scarcerato per obesità. Si noti che Ferranti non è un detenuto qualunque o un ladro di polli, è accusato di associazione mafiosa e di appartenenza a uno dei clan fedeli al boss Salvatore Lo Piccolo, esponente di spicco di Cosa Nostra. Un reato di questo tipo prevede sempre la custodia in carcere, a meno di gravissimi motivi di salute, ma Ferranti non ne aveva. Semplicemente in tutta Italia non esiterebbe una cella abbastanza ampia. Quando è stato trasferito nella casa circondariale di Pesaro la direzione si è vista costretta ad assegnare al detenuto un agente che si occupasse di lui giorno e notte, per ogni minimo spostamento e funzione fisiologica.
Io sono assolutamente contrario al carcere. Penso che una pena debba svolgere tre funzioni base: isolare il colpevole dalla parte sana della comunità, provvedere alla sua rieducazione e al successivo reinserimento nella società, risarcire economicamente la comunità.
Le carceri riescono a svolgere soltanto la prima di queste azioni, compromettono fortemente, spesso irreparabilmente, ogni tentativo di rieducazione del detenuto (il carcere è il luogo antieducativo per eccellenza) e rappresentano un costo molto elevato senza generare risorse.
Da decenni la tecnologia ci permette di avere a disposizione piccoli bracciali o collari o gambaletti elettronici che impedirebbero a chiunque di uscire da un perimetro virtuale prestabilito. Le carceri a cui penso io sono comunità isolate elettronicamente, ma non luoghi chiusi. Penso a dei villaggi, localizzati opportunamente sul territorio. Qui i detenuti non avrebbero celle ma piccoli appartamenti. Ci sarebbero psicologi, educatori, formatori del lavoro. Ci sarebbero soprattutto laboratori e officine dove imparare un lavoro, meglio se manuale, ad esempio legato all'artigianato. Il lavoro e un ambiente opportuno permettono il reale recupero della persona. In aggiunta generano reddito ed eliminano costi inutili. Se vogliamo recuperare chi sbaglia è questo il modo giusto. Mettere qualcuno in carcere è un alibi, una scusa per dimenticare criminali pericolosi in gabbia e ributtarli anni dopo nella società peggiori di prima, dopo che ci sono costati un salasso. E andrebbe sempre valutata la reale possibilità di recuperare un individuo; quando ciò non è possibile (penso alla maggior parte di mafiosi e terroristi) forse varrebbe la pena di non escludere il ricorso alla pena di morte.